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FOLLE GIUSTIZIA
Notizia di qualche giorno fa. Un uomo con un disturbo bipolare, in preda ad un accesso delirante, uccide la fidanzata con più di venti coltellate, con una violenza tale da sfigurarne orrendamente il corpo. Dopo dieci anni, con un cospicuo sconto di pena per buona condotta, quest'uomo viene fatto uscire dal carcere, senza alcuna restrizione di sorta. Questa la motivazione del tribunale: il soggetto è guarito, ha scontato la pena e può fare il suo ritorno alla società civile, per riprendere la libertà e la sua vita.
Una piccola digressione tecnica per chi non fosse totalmente avvezzo a terminologie psichiatriche. Un disturbo delirante è uno dei disturbi dell'umore più gravi oggi conosciuti nel mondo medico: la persona che ne soffre passa repentinamente dalla depressione più oscura alla maniacalità più rutilante, in una spirale che bene può rappresentare quello che comunemente chiamiamo follia. In alcune situazioni il disturbo, che implica ovviamente una totale e duratura perdita di equilibrio emotivo, può essere aggravato dalla presenza di deliri, di fughe in realtà parallele che possono portare il paziente a comportamenti aggressivi apparentemente inspiegabili. Ad oggi questo disturbo della mente non è curabile, nel senso che non può esservi una completa remissione della sintomatologia; l'obiettivo scientificamente raggiungibile è semplicemente quello di ridurre l'impatto dei sintomi sulla vita dell'individuo, cercando di mantenere un livello di equilibrio emotivo accettabile. Questo significa che anche nei casi a prognosi più favorevole il paziente deve continuare ad essere seguito da personale altamente specializzato, sia da un punto di vista farmacologico che psicoterapico. Una condizione tanto più importante in un disagio di fronte al quale anche l'efficacia dei farmaci deve essere continuamente controllata e valutata in relazione alla situazione psicologica della persona.
È realistico, dunque, ritenere che una persona con questo disturbo, arrivato ad uccidere un altro essere umano, una persona che conosceva e presumibilmente amava, sia stato curato, per giunta in carcere, in maniera così efficace da essere guarito? Guarito, non migliorato; ovvero un cambiamento così radicale da permettere a quell'uomo di uscire dal carcere da uomo libero, senza quelle restrizioni o quelle indicazioni terapeutiche che solitamente si richiedono in situazioni di delitti commessi in relazione ad un disagio psichico.
Questa rubrica ha sempre cercato di ricordare un aspetto centrale, troppo spesso dimenticato dalla cosiddetta società civile: la psicologia è una scienza che niente ha a che fare con le discipline che ne scimmiottano i principi teorici e i processi d'aiuto. A forza di dimenticare questo principio corriamo costantemente il rischio di ritrovarci con distorsioni della realtà come quello descritto in precedenza. Purtroppo i tribunali non ne sono affatto esenti. Da una parte vi è ancora la tendenza a rifarsi al “buon senso”, come se questo fosse sufficiente a prendere decisioni corrette sulla vita delle persone. Un giudice non può usare soltanto la propria saggezza e la conoscenza della giurisprudenza; purtroppo quello che troppe volte si osserva nelle risoluzioni dei conflitti genitoriali, quando le scelte si basano spesso sugli stereotipi sociali o su concetti di psicologia da rivista, ormai ampiamente superati. L'idea che la relazione madre-bambino debba essere sempre preservata, in quanto la sola davvero importante per la crescita adeguata del minore è un perfetto esempio di qualunquismo psicologico vecchio stampo, quando bastava un concetto basato sul senso comune per trovare un significato accettabile alle situazioni. E poi abbiamo l'altro lato della medaglia, situazioni nelle quali il parere del cosiddetto “esperto” di salute mentale diventa l'unica moneta spendibile in una decisione del tribunale (come forse avvenuto nel caso sopra esposto), arrivando così a situazioni paradossali, dove si certifica tutto ed il contrario di tutto, dove accade che un disturbo bipolare possa essere curato in carcere. Il rischio è sminuire la psicologia a lettura delle carte, dove chiunque può arrivare a sostenere qualunque cosa, dove regna l'interpretazione, per definizione non falsificabile, e dunque non scientifica. Relegando la psicologia a scienza minore, anzi, minorata, senza alcun vero riconoscimento culturale e sociale, un'arma da brandire a proprio piacimento perchè buona per tutte le occasioni. Ma se vogliamo avere degli strumenti che nel futuro ci permettano di affrontare i disagi della mente, non possiamo permetterci di lasciarla andare alla deriva della pseudoscienza, come una tecnica neurolinguistica qualunque. Dobbiamo trattarla come una disciplina scientifica, non perfetta, non coincidente con una personalità, per quanto importante o famosa, in continua evoluzione, a cui richiedere risposte empiriche, che siano basate su valutazioni realistiche e non su supposizioni o argomentazioni distaccate dalla realtà osservabile.