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LA RICERCA DI RASSICURAZIONE
Di fronte alla morte di un giovane calciatore professionista, proprio mentre era in campo a giocare una partita, come centinaia di altre volte nel corso della sua vita, si sono levate le voci più disparate. Chi ha espresso dolore, chi rabbia, chi incredulità. Ma, soprattutto nelle prime ore successive alla tragedia, i media si sono popolati di medici, cardiologi, specialisti di medicina sportiva, chiamati a dare una spiegazione, a dare “un senso”, ad una morte apparentemente inspiegabile.
Senza dubbio è una reazione profondamente umana tentare di comprendere quanto accade intorno a noi, soprattutto nei momenti in cui ci sentiamo impotenti, imprigionati in un vicolo cieco del quale non vediamo alcuna via d'uscita. E questo è ancora più vero di fronte alla morte, così indissolubilmente legata alla vita, ma nello stesso tempo, così difficile da accogliere nella nostra esperienza umana.
La morte di un ragazzo giovane, uno sportivo allenato e controllato in maniera altamente professionale, disvela una realtà che teniamo sullo sfondo, ma che dopotutto è lì, sempre ben presente, eppure spaventosa: la morte esiste, accade, e cosa peggiore, non può essere piegata al controllo umano.
C'è una differenza profonda tra la rassicurazione e la ricerca affannosa ed ossessiva del controllo. La prima è un bisogno universale, presente in tutti gli esseri viventi, e dunque centrale per la sopravvivenza stessa delle specie. Essere rassicurati, dai genitori prima e dalle persone con le quali costruiamo rapporti emotivamente intensi in seguito, è un elemento centrale del nostro stesso benessere individuale. La solitudine, infatti, è spesso depressiva per la mancanza, insita in essa, di un porto sicuro nel quale poter riposare, di una guida che ci permetta di sentirci stanchi, inadeguati, incerti, ma senza essere schiacciati da tali sensazioni.
Ma rassicurare non significa inoculare la credenza di poter avere un assoluto controllo sulla propria vita. Quando cercare una rassicurazione si traduce, in realtà, in una ricerca spasmodica di controllo, essa perde le qualità protettive e positive di bisogno da soddisfare, ed assume quelle, irrazionali ed ansiogene, di strumento attraverso il quale assoggettare la vita alla nostra volontà.
In realtà, proprio nel momento in cui si tenta di assumere il comando della propria esistenza, si impedisce a sé stessi di trovare il ristoro della rassicurazione. A quel punto, infatti, non è importante avere qualcuno (finanche sé stessi), capace di sostenerci di fronte alla paura e all'imprevedibilità della vita; ciò che diventa davvero importante, di più, essenziale per il nostro benessere, è avere tutti gli strumenti, tutte le armi, grazie alle quali poterne assumere un controllo totalizzante, in una ricerca che non può terminare se non nel momento in cui esso sia davvero conquistato.
Ma è proprio questa la vera follia insita in un circolo vizioso di questo genere. Noi viviamo per definizione in un mondo nel quale esistono dimensioni sfuggevoli alla nostra volontà, per quanto essa possa essere forte e determinata. Piegare la nostra esistenza alla ricerca di una via per trasformare quello stesso mondo in qualcos'altro, qualcosa che sia programmabile e controllabile, non fa altro che aumentare, giorno dopo giorno, il nostro senso di ansia e di angoscia, facendoci perdere di vista le cose davvero importanti, quelle per le quali varrebbe la pena di vivere, assumendosi anche dei rischi. Una persona che soffre di attacchi di panico apprende ad avere paura delle proprie sensazioni fisiche, nella consapevolezza terribile che esse non possano essere controllate, e che dunque possano, proprio per questo motivo, diventare pericolose e catastrofiche. Perduto in questa certezza, egli cerca di vincerne l'imprevedibilità, con la conseguenza di renderle ancora più incerte, forti, paurose. E finendo per costruire la sua vita su una serie infinita di fughe e di evitamenti, perdendo di vista i suoi desideri, i suoi bisogni, le relazioni affettive. In una parola, la vita stessa.