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CHI HA PAURA DELLA PSICOTERAPIA?
“Io non ho bisogno di andare da uno psicoterapeuta! Non sono mica matto!”
Questa è una frase che, ancora oggi, si sente molto spesso. La terapia psicologica, malgrado le conoscenze veicolate in questi ultimi anni, è ancora vista con grande timore da molte persone, che la considerano un tabù, la prova inconfutabile di un disagio esistenziale non affrontabile, dunque il segno di malattia mentale, di follia.
Anche per questo motivo i corsi di molti pseudo-professionisti si sono moltiplicati negli anni. Con una forma spregiudicata di marketing molti di essi si sono spinti a considerare il coaching e il counselling forme di terapia “mascherata” (con frasi del tipo: “non è terapia, ma è terapeutica”), riuscendo in questo modo a disinnescare il disagio vissuto dalle persone nel momento di intraprendere un percorso di psicoterapia, mantenendo però inalterata la motivazione ad un cambiamento promesso come certo e privo di grandi difficoltà. In un colpo solo vengono così eliminate le caratteristiche terrifiche di una psicoterapia scientificamente fondata, prima tra tutti la paura di essere etichettati, guardati di sottecchi dalle persone “normali”, unita all'idea di aver perduto il controllo sulla propria vita. E, nello stesso tempo, si assume l'idea di essere simili agli altri, in un contesto di gruppo dove non c'è l'idea mortificante del dolore e del disagio, ma la prospettiva entusiastica di ritrovare energie dimenticate, capacità sepolte, financo talenti che non si credeva neppure di avere.
Ma, d'altro canto, è tantissimo anche quello che si perde: la potenza di reali strategie di cambiamento, la forza di strumenti scientifici capaci di evidenziare le vulnerabilità individuali e dunque di liberare la persona dai circoli viziosi in cui essa è caduta nel tempo.
La psicoterapia, oggi più che mai, non è “soltanto” una cura di disturbi facilmente descrivibili da un punto di vista clinico, come l'attacco di panico, la fobia sociale o la depressione. I disagi che viviamo quotidianamente sono assai più subdoli, meno identificabili, capaci di strisciare tra le pieghe delle nostre debolezze emotive e comportamentali. Sempre di più non si ha neppure consapevolezza dei reali motivi del dolore pervasivo che ci accompagna giorno dopo giorno; esso non è troppo forte da impedirci di vivere una vita piena d'impegni, ma al contempo è martellante, costante, una spina dolente dalla quale non sembra esserci sollievo. E l'idea stessa di soffrire senza apparente ragione, ci conduce ad un senso di colpa che aumenta il disagio, nell'idea di aver perduto un controllo che credevamo granitico su noi stessi e sulla nostra esistenza.
Nella maggior parte dei casi, la sofferenza deriva da schemi cognitivi ed emotivi appresi nel tempo, all'interno del nostro mondo relazionale, conseguenza di bisogni fondamentali insoddisfatti. Il tentativo di evitare o di compensare il dolore proveniente da queste visioni del mondo e di noi stessi, ci conduce a costruire degli stili comportamentali irrazionali e tossici, che tuttavia ci mantengono paradossalmente in quello stato di disagio dal quale vorremmo fuggire. Siamo noi stessi gli artefici dei nostri circoli viziosi, e questo è il solo concetto adeguato che i “mental coach” utilizzano nei loro corsi. Il problema, però, è che essi dimenticano una cosa fondamentale: le persone non sono macchine cibernetiche che possono essere “programmate” come computer. Esse hanno costruito una personale prigione dell'esistenza conoscendone perfettamente limiti e possibilità, sapendo di ridurre la propria libertà di scelta, ma al contempo incapaci di farne a meno. Non bastano frasi ad effetto, grezze tecniche di manipolazione del pensiero, modelli comportamentali di talenti vincenti per aiutare davvero le persone a stare meglio, ad uscire dai loro labirinti esperienziali. La maggior parte di esse si saranno già detti le stesse frasi, o le avranno già lette, milioni di volte.
La psicoterapia non avrà forse la patina “cool” di molti corsi infarciti di sterili autoesaltazioni, nei quali si insegue la folle idea di poter “apprendere” ad essere i nuovi Jobs o Messi. Ma essa è la sola strada per comprendere i reali bisogni che non abbiamo mai avuto il coraggio o la forza di soddisfare, quelli che ci hanno portato a costruire convinzioni irrazionali e dolorose su noi stessi e sulle persone intorno a noi.