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SCHIAVI DEI PROPRI PENSIERI
Tutti noi, nel corso della nostra vita quotidiana, abbiamo occasionali pensieri negativi, spesso eccessivi e drammatizzanti, riguardanti possibili pericoli o conseguenze terribili di particolari circostanze. Eppure, per quanto ansiogeni, essi non producono particolari disagi, né influenzano in alcun modo il nostro comportamento. Il motivo è che questi pensieri rimangono semplici eventi mentali, che dopo aver fatto la loro comparsa sul palcoscenico della nostra mente, semplicemente scompaiono senza lasciare tracce di sé.
Questa è la principale differenza tra una persona “sana” ed una affetta da uno dei disturbi d'ansia maggiormente debilitanti, il cosiddetto disturbo ossessivo-compulsivo.
La caratteristica più importante di questo problema psicologico è la presenza delle ossessioni, ovvero idee ed immagini persistenti ed intrusive, capaci di provocare un fortissimo disagio alla persona che li esperisce, tale da portarlo a mettere in atto azioni che possano neutralizzarlo o prevenirlo. Esse sono le cosiddette compulsioni: comportamenti ripetitivi e stereotipati, tali da assumere il carattere di veri e propri “rituali”.
Un soggetto affetto dal disturbo ossessivo-compulsivo considera il proprio pensiero “reale”, e questo lo porta a vivere un forte stato d'ansia che cerca di placare in qualche modo. Il pensiero si riferisce solitamente a temi particolarmente rilevanti per la persona; per questo, al fine di trovare una parziale rassicurazione, essa mette in atto dei comportamenti che permettano di prevenire o neutralizzare il rischio evidenziato dal pensiero.
Vediamo un piccolo esempio. Una delle ossessioni maggiormente presenti in questi soggetti è quella di “contaminazione”; essi hanno il timore di poter essere contaminati in maniera irreversibile dai germi o dallo sporco con cui quotidianamente possono venire in contatto, contraendo malattie potenzialmente letali. Per questo motivo cercano di neutralizzare il pericolo declinato all'interno del pensiero con continui rituali di lavaggio, che spesso occupano gran parte della loro giornata, con gravi conseguenze lavorative e sociali. Tuttavia l'azione riesce a neutralizzare l'ideazione ansiogena per un tempo molto breve; queste persone presentano una bassissima tolleranza all'incertezza ed al dubbio che un potenziale rischio non si possa realizzare, e dunque il pensiero ossessivo prima o poi ricompare, riattivando il circolo vizioso tipico del disturbo.
In che modo la terapia può rompere tale circolo?
Il primo passo è quello di insegnare al soggetto a discriminare tra un pensiero ossessivo ed uno normale, evidenziandone il carattere catastrofico e non realistico. A partire da questo punto, dunque, è possibile ristrutturarlo, distanziandosi da esso, imparando così a vederlo semplicemente come un evento mentale per nulla coincidente con la realtà.
Il secondo passo, altrettanto importante, è quello di aiutare la persona ad evitare i rituali rassicuranti, pur in situazioni ansiogene. Questo è centrale nel percorso di cura per due motivi; da un lato permette di abituarsi all'ansia ed all'incertezza in maniera graduale, accorgendosi in tal modo del suo carattere innocuo, dall'altro permette di disinnescare la pericolosità dei pensieri ossessivi stessi. Infatti, se non faccio nulla per prevenire o neutralizzare il rischio che l'ossessione mi paventa (“la mia mano sarà piena di germi mortali che mi faranno morire se non faccio qualcosa al più presto”), osservando quello che realmente accade, potrò metterne in dubbio la validità in maniera più immediata ed efficace.
Tuttavia, non sempre questi passaggi sono definitivi per il superamento del problema. Perché questi pazienti hanno bisogno di trovare una certezza al di là di ogni possibile dubbio? Perché presentano dei principi morali e comportamentali così rigidi da essere impermeabili ai tentativi di modificazione esterni? Perché non si fidano di loro stessi e delle loro capacità di pensiero fino a questo punto? Rispondere a queste domande è spesso fondamentale per giungere ad un'effettiva “guarigione” del disagio; ma per farlo occorre lavorare sull'identificazione e sulla modificazione degli schemi cognitivi ed emotivi più profondi dei pazienti.