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IL TEMPO PER I FIGLI
In un contesto giuridico e culturale nel quale si dibatte, da molti anni ormai e spesso con poco costrutto, di affido condiviso, c’è una domanda che ricorre continuamente, ma che in pochi hanno il coraggio di affrontare: c’è un tempo “giusto” da dedicare ai figli?
Alcuni colleghi, purtroppo, sono ancora legati ad obsolete teorie relazionali, frutto di un retaggio che dovrebbe essere ormai sorpassato da tempo, secondo cui i bambini dovrebbero passare più tempo con la madre, essendo il rapporto con lei il solo caposaldo di una crescita emotiva e cognitiva degna di questo nome. Tale visione, colpevole in gran parte della mancata applicazione della nuova norma sull’affido, e della differente considerazione dei ruoli genitoriali, non ha alcun fondamento clinico o sperimentale. Di più; tutti gli studi condotti su bambini cresciuti con l’unica figura paterna come riferimento genitoriale non hanno mostrato alcuna differenza sostanziale rispetto ai coetanei cresciuti in un ambiente familiare “tradizionale”. Chi si occupa in maniera seria di attività clinica, prima ancora che di psicologia evolutiva, sa bene che, all’interno del rapporto con entrambi i genitori, non è il sesso dell’adulto ma le dinamiche che ne sostanziano le relazioni ad influenzare la crescita del figlio, a strutturare gli schemi attraverso cui definirà se stesso ed il mondo. In tal senso, non è tanto l’immagine del genitore in sé stessa ad essere importante per il bambino, ma il suo comportamento. Il genitore è il primo modello sociale in assoluto; all’interno della relazione con lui, il piccolo inizia a declinare i vissuti emotivi, propri ed altrui, ad attribuire significato a quello che gli succede intorno, ad apprendere ad affrontare il mondo che lo circonda, a riconoscere i ruoli e le diverse modalità di approcciarsi ad essi. I bambini hanno una grande capacità di apprendimento, e maggiori saranno gli stimoli cognitivi ed emotivi nei quali sono immersi, più vasto sarà il loro repertorio comportamentale.
Partendo da questi assunti, dunque, come possiamo rispondere alla domanda iniziale? Innanzitutto occorre dire che non c’è un tempo “giusto” in senso assoluto, almeno dal punto di vista della durata della relazione. Ma, certo, una maggiore frequentazione può aumentare le possibilità di sostanziare il rapporto in maniera decisiva per il benessere del figlio. È proprio con questo presupposto che i relatori hanno costruito e stanno riscrivendo la legge sull’affido condiviso. Permettere al bambino di avere lo stesso tempo di relazione con entrambi i genitori è un modo di difendere il suo diritto all’apprendimento; ed è, ancor di più, un modo (il solo in realtà) di acquisire i fondamenti emotivi e cognitivi che saranno alla base delle future relazioni con gli altri, adulti e coetanei, maschi e femmine. Solo in tal senso i ruoli acquisiscono un significato; essi, però, non sono tanto importanti per quello che possono rappresentare “culturalmente”, ma per gli indicatori comportamentali che possono dare al bambino, aiutandolo ad orientarsi in un contesto sociale nel quale verrà immerso molto presto, già all’ingresso nella scuola materna. Ed è a questo che bisognerebbe pensare quando si tratta di gestire ed organizzare i tempi dei figli “condivisi”; non dovremmo perdere tempo a “mediare” tra i desiderata dei genitori, o a trovare un modo che permetta loro di dialogare civilmente. Il vero obiettivo dovrebbe essere quello di aiutare questi minori a crearsi un’immagine del mondo che possa essere il più ricca e vivida possibile, anche con sfumature di conflittualità, ma coerente con la realtà che vivono e vivranno, solo strumento attraverso il quale potranno costruirsi strutture non distorte di loro stessi e delle persone che vivono intorno a loro. La ricerca di un fasullo status quo, che dovrebbe cercare di ridurre i dissidi il più possibile, rischia in realtà di strutturare vissuti di colpa o di abbandono ben più gravi e, ancor peggio, ben più pesanti nel percorso di crescita futura.