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LA VIOLENZA: REAZIONE O SCELTA?
Parlando di una manifestazione di violenza salita rapidamente alla ribalta delle cronache, un collega avanzava l’ipotesi che certe azioni siano semplicemente delle reazioni, comprensibili all’interno di una catena causa-effetto. Una cosa del tipo: basta che io metta in atto un comportamento violento di un qualunque genere, e immediatamente le persone intorno a me, ne metteranno in essere altre, di simile contenuto, ma di differente intensità. Pur rispettando un’analisi del genere, non sono d’accordo sul fatto che la questione possa essere liquidata così rapidamente e semplicisticamente.
Credo sia importante, innanzitutto, fare una differenza tra i gesti violenti compiuti singolarmente e quelli messi in atto in gruppo.
Il gruppo ci “nasconde” come individui, e questo permette di eseguire azioni che probabilmente non saremmo in grado di eseguire da soli. È stato dimostrato, in tal senso, che rendere le persone meno identificabili come individui, aumenta la probabilità di azioni aggressive. In poche parole, l’anonimità del gruppo elimina le limitazioni abituali che applichiamo al comportamento individuale nella vita quotidiana.
La violenza compiuta senza l’appoggio degli altri, ha una valenza ben diversa, e non solo nei casi in cui questa sfocia nella psicopatologia criminale. Pensiamo ad una situazione comune, o che magari abbiamo letto sui giornali; un banale litigio automobilistico che sfocia in una brutale aggressione. Che cosa succede in quel momento? Perché una persona perde apparentemente il controllo di sé e arriva a mettere in atto un’azione violenta? È davvero possibile credere che sia stata sufficiente un singolo comportamento provocatorio, per quanto esecrabile e volgare?
Pensare ad un uomo che agisce soltanto perché provocato è piuttosto banale, soprattutto per il fatto che le persone non sono semplicemente immerse in un ambiente sociale, ma partecipano attivamente alla costruzione dei suoi significati. Se il principio di “azione-reazione” fosse corretto, tutti avremmo avuto, prima o poi, i motivi per colpire qualcuno, o comunque per lasciarci andare a manifestazioni violente. Ma, come è facile capire, questo non accade.
Difficilmente uno stimolo è sufficiente per scatenare una risposta complessa come questa. La cosa davvero importante è il significato che quello stimolo assume per la persona che lo vive. Riguardiamo l’esempio della lite stradale. Forse l’aggressore è stato insultato, e forse ha rischiato un incidente per l’imprudenza dell’altro automobilista.
Ma cosa è davvero accaduto di così grave da spingerlo al limite, facendoglielo superare? Vi sono molte possibili ipotesi, ma tutte intimamente legate alle dinamiche emotive e cognitive dell’individuo stesso. Forse è una persona con un rigido schema di grandiosità, che si ritiene esonerato dal rispettare le regole di reciprocità, che si pone in una condizione di superiorità e che non può tollerare di non essere in una posizione di potere o di controllo. Forse ha uno schema di autocontrollo insufficiente, che lo rende incapace di gestire le frustrazioni e di prevenire violenti scatti di ira o di rabbia. Forse tende ad ipercompensare uno schema di sottomissione che lo induce a cercare sempre il contrasto e la disputa per combattere un senso profondo di inadeguatezza nei confronti degli altri. O, magari, presenta uno schema di punizione, che lo porta ad avere un atteggiamento duro e punitivo nei confronti di tutti coloro che commettono un errore.
Come è facile notare, dunque, molto poco della reazione di quell’uomo sarà influenzata dal contesto, e molto, invece, dipenderà dai suoi, personali, nuclei di vulnerabilità.